Differenze fondamentali tra felicità Edonica e Eudaimonica

di Sergio Amodei

La ricerca della felicità è uno dei motori fondamentali della condizione umana. Filosofi, psicologi e scienziati sociali hanno a lungo esplorato cosa significhi essere felici e come possiamo raggiungere questa ambita condizione. Negli studi sul benessere, si distinguono due approcci fondamentali: la felicità edonica e la felicità eudaimonica. Sebbene entrambe le forme siano rilevanti per il nostro benessere generale, differiscono profondamente nel modo in cui si manifestano e nel tipo di vita che promuovono.

Felicità edonica:

La felicità edonica è strettamente legata al piacere e alla gratificazione immediata. Deriva dal termine greco hedoné, che significa “piacere”, e ha radici nell’edonismo, una corrente filosofica che enfatizza la ricerca del piacere come massima fonte di benessere. L’edonismo, sebbene associato principalmente a pensatori come Epicuro, è un concetto che permea molte culture e tradizioni. Il piacere edonico si manifesta nella ricerca di esperienze positive che ci fanno sentire bene, sia a livello fisico che emotivo. Questo tipo di felicità si nutre di emozioni come la gioia, l’euforia e la soddisfazione, e si concentra principalmente sulla riduzione del dolore e sull’aumento delle sensazioni piacevoli.

La felicità edonica è, quindi, immediata e transitoria, poiché dipende dalle circostanze e dagli eventi che accadono nel presente. Quando mangiamo un pasto delizioso, godiamo di un tramonto spettacolare o ridiamo con gli amici, stiamo vivendo momenti di felicità edonica. È legata a esperienze che offrono gratificazione istantanea, come il divertimento, il relax, il consumo di beni o la soddisfazione di bisogni e desideri. La cultura contemporanea, in particolare con l’avvento della società dei consumi e l’accessibilità immediata di piaceri materiali, ha rafforzato l’idea che il piacere edonico sia una forma fondamentale di felicità.

Tuttavia, proprio per la sua natura transitoria, la felicità edonica può essere fugace. Sebbene momenti di piacere siano fondamentali per un’esistenza equilibrata, vivere esclusivamente per la gratificazione immediata può portare a un ciclo di desiderio incessante, dove si cerca continuamente qualcosa di nuovo per sentirsi soddisfatti.

Felicità eudaimonica: Una vita di significato e virtù

La felicità eudaimonica, d’altra parte, è un concetto molto più profondo e radicato nella filosofia classica. Deriva dal termine greco eudaimonia, che si traduce come “benessere” o “realizzazione”, e si riferisce a uno stato di felicità che non si basa solo sul piacere, ma sulla virtù e sulla realizzazione del proprio potenziale. Aristotele fu uno dei principali sostenitori dell’eudaimonia, sostenendo che il vero benessere umano si raggiunge attraverso una vita di scopi e virtù, in armonia con il nostro “dàimon”, o spirito interiore.

La felicità eudaimonica non si concentra tanto su ciò che accade nel momento presente, quanto sulla coerenza tra le azioni che compiamo e i nostri valori e obiettivi più profondi. Questo tipo di felicità è legato alla crescita personale, alla connessione con gli altri e alla costruzione di una vita che ha significato. Piuttosto che cercare la soddisfazione immediata, la felicità eudaimonica si nutre di scopi a lungo termine e dell’autorealizzazione.

Esempi di felicità eudaimonica includono lo sviluppo di abilità, il contributo al bene comune, il mantenimento di relazioni significative e l’impegno verso cause che consideriamo importanti. È una felicità che deriva dal fare ciò che è giusto, dal diventare la versione migliore di noi stessi e dal perseguire una vita che sia non solo piacevole, ma anche significativa. La differenza tra la felicità edonica e quella eudaimonica è simile alla differenza tra l’accumulo di esperienze piacevoli e la costruzione di una vita che ci porti alla nostra piena realizzazione.

Le basi psicologiche della felicità edonica ed eudaimonica

Negli ultimi decenni, la psicologia ha esplorato intensamente questi due tipi di felicità. Martin Seligman, pioniere della psicologia positiva, ha sottolineato come la vera felicità derivi da una combinazione di piacere (felicità edonica), impegno e significato (felicità eudaimonica). Mentre la ricerca di momenti piacevoli è importante per il benessere emotivo, le persone che vivono una vita significativa e virtuosa tendono a provare un senso più profondo e duraturo di soddisfazione.

Gli studi hanno dimostrato che la felicità edonica è legata a emozioni positive a breve termine, come il piacere e la gioia, ma spesso porta a un ritorno allo stato di partenza una volta terminata l’esperienza gratificante. Questo fenomeno è noto come adattamento edonico: dopo aver sperimentato un piacere, ci abituiamo rapidamente a esso, e abbiamo bisogno di nuove esperienze per ritrovare lo stesso livello di soddisfazione.

La felicità eudaimonica, invece, è associata a una maggiore resilienza, a una percezione di scopo e a un benessere psicologico più stabile. Le persone che perseguono scopi a lungo termine, che coltivano relazioni autentiche e che si impegnano in attività che riflettono i loro valori fondamentali tendono a sperimentare una maggiore soddisfazione complessiva nella vita.

Il dibattito contemporaneo: quale felicità dovremmo cercare?

La domanda se sia più importante cercare la felicità edonica o eudaimonica è ancora oggetto di dibattito. In molte società moderne, si dà grande enfasi alla felicità edonica, in gran parte grazie ai media e alla cultura dei consumi che ci spingono a cercare costantemente nuove esperienze gratificanti. Tuttavia, il crescente interesse per il benessere a lungo termine e la consapevolezza che il piacere immediato non è sufficiente per una vita appagante ha portato a una rivalutazione della felicità eudaimonica.

In questo contesto, è utile considerare entrambe le forme di felicità come complementari piuttosto che contrapposte. La vita non può essere ridotta solo al piacere o solo alla virtù: entrambi giocano un ruolo essenziale. I momenti di piacere edonico possono offrirci sollievo e divertimento, aiutandoci a rigenerarci; al contempo, il perseguimento di uno scopo e l’autorealizzazione eudaimonica ci forniscono un senso di direzione e soddisfazione a lungo termine.

Integrare felicità edonica ed eudaimonica nella vita quotidiana

In definitiva, per vivere una vita veramente appagante, è fondamentale trovare un equilibrio tra felicità edonica ed eudaimonica. Il piacere e la gioia sono importanti per il nostro benessere emotivo, ma senza un senso di scopo e direzione, possono diventare insoddisfacenti. D’altro canto, dedicarsi esclusivamente alla crescita personale o al contributo sociale senza concedersi momenti di piacere può risultare altrettanto insostenibile.

Un modo per integrare queste due forme di felicità è adottare pratiche di consapevolezza e gratitudine. Queste ci permettono di apprezzare i piccoli momenti di gioia nella nostra vita quotidiana, senza perdere di vista i nostri scopi a lungo termine. Coltivare relazioni significative, impegnarsi in attività che promuovano sia il piacere che il significato, e riconoscere l’importanza di entrambi gli approcci al benessere possono aiutarci a vivere una vita più equilibrata e soddisfacente.

In conclusione, la felicità edonica e la felicità eudaimonica rappresentano due facce della stessa medaglia: entrambe sono essenziali per il nostro benessere, ma in modi diversi. Mentre il piacere edonico ci dà gioia nel presente, la felicità eudaimonica ci aiuta a costruire una vita che valga la pena vivere. La chiave è saper bilanciare le due dimensioni, trovando un’armonia tra il piacere immediato e il significato duraturo.

Foto: Amie Roussel

Alla ricerca del proprio scopo: James Hillman e la teoria della ghianda

di Sergio Amodei

James Hillman, uno dei pensatori più influenti della psicologia contemporanea, è conosciuto soprattutto per il suo approccio rivoluzionario alla mente umana. Fondatore della psicologia archetipica, Hillman ha esteso l’opera di Carl Jung, focalizzandosi su simboli, immagini e miti per comprendere il funzionamento della psiche. Uno dei suoi contributi più significativi è Il codice dell’anima (1996), un libro che ha catturato l’attenzione di un vasto pubblico grazie alla sua visione unica sul destino umano e sulla vocazione personale.

Chi era James Hillman?

Prima di entrare nel cuore de Il codice dell’anima, è utile conoscere il background del suo autore. Hillman nacque nel 1926 negli Stati Uniti e si formò in psicologia con un forte interesse per le opere di Carl Gustav Jung. Hillman, come Jung, credeva che la mente umana non fosse solo un prodotto delle esperienze personali, ma fosse legata a qualcosa di più profondo: miti, archetipi e simboli universali che condividiamo come specie.

Invece di concentrarsi su singoli eventi della vita personale, come fa la psicoanalisi classica, Hillman suggeriva che la psiche umana fosse intrinsecamente collegata a una dimensione immaginale. Questo significa che i sogni, le storie e i miti che popolano la nostra immaginazione non sono solo fantasie, ma hanno un significato profondo nella comprensione di chi siamo.

Il codice dell’anima: una visione del destino personale

Il codice dell’anima rappresenta una delle opere più accessibili e potenti di Hillman. In questo libro, Hillman esplora una domanda antica e fondamentale: perché siamo come siamo? Perché certe persone seguono determinate strade nella vita e altre no? Perché alcuni di noi sembrano avere un talento innato o una vocazione che li guida, mentre altri sembrano vagare senza meta?

Hillman introduce l’idea che ciascuno di noi nasca con un “codice dell’anima” o un “daimon” (una sorta di spirito guida interiore), che ci spinge verso un destino personale unico. Questa idea è ispirata al concetto di daimon nell’antica Grecia, una figura simile a un angelo custode o un demone personale, che ci orienta verso il nostro scopo nella vita.

Il mito della ghianda: la metafora centrale

Per spiegare questa idea, Hillman utilizza una potente metafora: il mito della ghianda. Immagina una ghianda, un piccolo seme che contiene dentro di sé tutto il potenziale per diventare una quercia imponente. Allo stesso modo, ogni persona nasce con una “ghianda” interiore, un seme che racchiude il proprio destino. La ghianda rappresenta il nucleo essenziale della nostra identità, ciò che dobbiamo diventare nella nostra vita.

Secondo Hillman, questa “ghianda” è presente in noi fin dall’infanzia. Le nostre inclinazioni, i nostri interessi e le nostre passioni non sono casuali o determinate esclusivamente dalle influenze esterne, ma riflettono il nostro codice dell’anima. Hillman va oltre il classico dibattito “natura contro cultura” (cioè se siamo plasmati più dalla genetica o dall’ambiente), proponendo una terza via: siamo guidati da una vocazione profonda e misteriosa che ci porta a realizzare chi siamo veramente.

Il ruolo del Daimon

Nel concetto di Hillman, il daimon è la forza che ci spinge a realizzare il nostro potenziale. Non è qualcosa di esterno a noi, ma una parte essenziale della nostra anima. Il daimon ci spinge verso esperienze e incontri che ci aiutano a sviluppare la nostra vocazione. Non si tratta solo di seguire una carriera o un talento specifico, ma di scoprire e vivere il nostro destino personale, che potrebbe manifestarsi in molti modi diversi.

Hillman sottolinea che il daimon non ci rende la vita facile. A volte, le esperienze che ci guidano verso il nostro destino possono essere difficili o dolorose. Ma queste sfide fanno parte del processo di crescita e trasformazione che ci porta a realizzare chi siamo veramente.

Esempi di grandi vite

Nel libro, Hillman usa esempi di persone famose e straordinarie per dimostrare come il daimon possa manifestarsi. Cita figure come il violoncellista Pablo Casals o l’attrice Judy Garland, persone che sembravano essere “chiamate” fin dalla giovane età a seguire un destino preciso. Tuttavia, Hillman non limita il concetto di vocazione solo ai grandi personaggi storici. Egli ritiene che tutti noi abbiamo una vocazione, anche se non sempre è facile individuarla o seguirla.

Un esempio significativo è quello di Casals, che già da bambino mostrava un’incredibile passione e talento per la musica. In questo caso, il suo daimon lo spinse in modo molto evidente verso il suo destino di grande musicista. Tuttavia, per molte persone, il daimon potrebbe manifestarsi in modi meno ovvi o più sottili.

Non tutto è predestinato

È importante sottolineare che Hillman non crede che il destino sia predeterminato in modo rigido. Non propone un’idea fatalistica della vita, dove ogni aspetto è già scritto. Invece, suggerisce che abbiamo una “spinta” interna verso certi percorsi, ma rimane sempre un margine di libertà nelle nostre scelte. Il daimon ci guida, ma sta a noi ascoltarlo o meno.

Inoltre, il codice dell’anima non riguarda solo il successo o l’autorealizzazione nel senso più comune. Non si tratta di raggiungere fama o fortuna, ma di vivere una vita in sintonia con la propria vera natura. Ogni persona ha un percorso unico e speciale, e il successo non deve essere misurato con criteri esterni o convenzionali.

Il ruolo dei traumi e delle difficoltà

Una delle intuizioni più interessanti di Hillman è il ruolo dei traumi e delle difficoltà nella realizzazione del nostro destino. Spesso tendiamo a pensare ai momenti difficili della nostra vita come a ostacoli da superare. Hillman, invece, suggerisce che anche le esperienze negative possono avere un significato profondo. A volte, sono proprio le difficoltà a spingerci verso il nostro destino. Il dolore e la sofferenza possono aprire nuove porte e guidarci verso una maggiore comprensione di chi siamo.

La differenza con la psicologia tradizionale

La visione di Hillman si distingue nettamente dalla psicologia tradizionale, che spesso si concentra su problemi, traumi e disfunzioni. Hillman non nega l’importanza di affrontare i propri problemi, ma crede che ci sia un aspetto più grande e più profondo da considerare: il senso del nostro essere. Non si tratta solo di curare ferite psicologiche, ma di scoprire e vivere il nostro destino personale.

Come scoprire il proprio codice dell’anima

Un punto centrale del libro è che ciascuno di noi deve imparare a riconoscere i segnali del proprio daimon. Hillman suggerisce che fin da piccoli possiamo percepire alcuni indizi della nostra vocazione, che si manifestano sotto forma di interessi, passioni o persino ossessioni. Tuttavia, non sempre è facile riconoscerli, soprattutto in una società che spesso ci spinge a seguire percorsi prestabiliti o convenzionali.

Un modo per entrare in contatto con il proprio codice dell’anima, secondo Hillman, è prestare attenzione alle immagini e ai simboli che emergono dalla nostra immaginazione e dai nostri sogni. Questi non sono solo frutto della fantasia, ma possono essere messaggi profondi del nostro daimon.

Conclusione

Il codice dell’anima di James Hillman è un’opera affascinante che ci invita a riflettere sul nostro destino e sulla vocazione che guida le nostre vite. Attraverso la metafora della ghianda, Hillman ci ricorda che ognuno di noi ha un potenziale unico e un percorso da seguire. Tuttavia, la strada non è sempre facile e lineare. Il daimon che ci guida può portarci a vivere esperienze difficili, ma è proprio in queste sfide che possiamo trovare la nostra vera essenza.

Hillman ci offre una visione più ampia e poetica della vita, invitandoci a guardare oltre le spiegazioni superficiali della psicologia tradizionale e a cercare il significato più profondo del nostro essere. Attraverso questo viaggio di scoperta personale, possiamo imparare a vivere una vita più autentica, in armonia con il nostro codice dell’anima.

Foto: Mikhail Nilov